Alla fine, in un modo o nell’altro, l’Onu doveva farci ridere, per non piangere. Nella rosa dei candidati per la nuova Agenzia per le Donne c’era l’Iran. Sì, proprio la Repubblica Islamica in cui le donne, di fronte a un giudice, contano la metà, devono girare per strada solo se coperte dal velo nero (non di altri colori) che copra rigorosamente tutti i capelli, hanno più di una difficoltà ad affermarsi nel mondo del lavoro e, in alcune città, devono addirittura prendere mezzi pubblici ed ascensori divisi rispetto agli uomini, come i neri nel Sud Africa del peggior Apartheid. Proprio quell’Iran in cui Sakineh Mohammadi Ashtiani, nonostante la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, è ancora in attesa di essere lapidata, perché condannata per adulterio, e, al massimo, può sperare che la sua pena venga commutata in una più “umanitaria” impiccagione.
La candidatura dell’Iran è stata fortunatamente bocciata. Ma...
Nella nuova Agenzia entra a far parte l’Arabia Saudita. Un Paese in cui, che noi sappiamo, per ora, nessuna donna è in attesa di lapidazione e contro il quale, dunque, i riflettori internazionali non sono puntati. Ma è un Paese, retto da una monarchia assoluta, nel quale i diritti delle donne sono rispettati ancora meno che in Iran. Nella Repubblica Islamica, almeno, le donne possono guidare. In Arabia Saudita no. In Iran le donne possono uscire di casa (debitamente abbigliate), in Arabia Saudita no. A meno che non siano accompagnate da un familiare maschio. Anche nel regno di Ryiad, le donne rischiano la lapidazione. E la fustigazione. E la fucilazione (spesso sostitutiva della decapitazione, riservata agli uomini). Possono anche essere legalmente picchiate, in modo arbitrario, dalla polizia religiosa, che ha il compito di proteggere la virtù dei sudditi e punirne i vizi. Non possono lavorare. Non possono espatriare senza accompagnatore maschio. Non possono difendersi di fronte a un giudice senza un garante maschio. Possono essere condannate a mesi di galera e a 200 frustate se sono vittime di stupro. Vittime, non carnefici, avete capito bene.
Questa è l’Arabia Saudita. E siede nell’Agenzia Onu per le Donne.
Alla fine, in un modo o nell’altro, l’Onu doveva doveva farci ridere, per non piangere. Nella rosa dei candidati per la nuova Agenzia per le Donne c’era l’Iran. Sì proprio la Repubblica Islamica in cui le donne, di fronte a un giudice, contano la metà, devono girare per strada solo se coperte dal velo nero (non di altri colori) che copra rigorosamente tutti i capelli, hanno più di una difficoltà ad affermarsi nel mondo del lavoro e, in alcune città, devono addirittura prendere mezzi pubblici ed ascensori divisi rispetto agli uomini, come i neri nel Sud Africa del peggior Apartheid. Proprio quell’Iran in cui Sakineh Mohammadi Ashtiani, nonostante la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, è ancora in attesa di essere lapidata, perché condannata per adulterio, e, al massimo, può sperare che la sua pena venga commutata in una più “umanitaria” impiccagione
La candidatura dell’Iran è stata fortunatamente bocciata. Ma.
Nella nuova Agenzia entra a far parte l’Arabia Saudita. Un Paese in cui, che noi sappiamo, per ora, nessuna donna è in attesa di lapidazione e contro il quale, dunque, i riflettori internazionali non sono puntati. Ma è un Paese, retto da una monarchia assoluta, nel quale i diritti delle donne sono rispettati ancora meno che in Iran. Nella Repubblica Islamica, almeno, le donne possono guidare. In Arabia Saudita no. In Iran le donne possono uscire di casa (debitamente abbigliate), in Arabia Saudita no. A meno che non siano accompagnate da un familiare maschio. Anche nel regno di Ryiad, le donne rischiano la lapidazione. E la fustigazione. E la fucilazione (spesso sostitutiva della decapitazione, riservata agli uomini). Possono anche essere legalmente picchiate, in modo arbitrario, dalla polizia religiosa, che ha il compito di proteggere la virtù dei sudditi e punirne i vizi. Non possono lavorare. Non possono espatriare senza accompagnatore maschio. Non possono andare difendersi di fronte a un giudice senza un garante maschio. Possono essere condannate a mesi di galera e a 200 frustate se sono vittime di stupro. Vittime, non carnefici, avete capito bene.
Questa è l’Arabia Saudita. E siede nell’Agenzia Onu per l