Al Teatro Libero di Milano è andata in scena la pièce Speaking in tongues e noi c’eravamo.
Un’opera complessa che ha messo alla prova l’abilità del regista Michael Rodgers, in perfetto controllo degli interpreti, di ogni dettaglio e in ogni istante dello spettacolo,e il trasformismo scenico e la capacità di tenere il ruolo dei bravissimi attori - Laura Anzani, Nicola Caruso, Margherita Remotti, Giacomo Rabbi - impegnati a interpretarla, vestendo in realtà i panni di una quantità di personaggi.
Due atti compongono la rappresentazione, due quadri situazionali simmetrici, al loro interno e l’uno verso l’altro. E la simmetria è anche nel risultato d’insieme: mentre nel primo atto, più di indagine sentimentale, si palesa sin dall’inizio, con l’ipnotico ritmo di dialoghi e movimenti speculari e intersecati – due coppie di partner si tradiscono a vicenda nelle rispettive clandestine camere d’albergo –, nella seconda parte della storia, tinta di noir e più orientata all’investigazione psicologica, si svela solo nel finale.
Il classico triangolo è in realtà più spesso un quadrato, perché lui, lei, l’altro (o l’altra) non esauriscono la dinamica del tradimento, che in realtà vede più spesso quattro parti in gioco.
Due atti, due quadrati, sospesi sul vertice dalla contraddizione sentimentale e della tensione di un giallo da svelare. Un poliziotto, un uomo sospettato di omicidio e un terzo sofferto personaggio li collegano e li sovrappongono, in un gioco narrativo a motivo jacquard.
Ambientazione essenziale, abili luci che iconizzano gli interpreti, atmosfera più del passato che odierna, ma comunque resa per rendere un dramma senza tempo: il gioco inevitabilmente crudele degli amori sovrapposti.
Un testo che infrange ogni sicurezza in tema d’amore, una regia ottima, eccellenti interpreti.