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Sabrina è alla soglia dei trent’anni ed è disoccupata. Un bel pasticcio. Un paio di settimane fa si è decisa ad iscriversi all’ufficio di collocamento, un appuntamento che aveva rimandato sperando di trovare ciò che cercava. Si è ritrovata seduta, faccia a faccia, con una consulente intenta a battere grossolanamente le lunghe dita sui tasti del pc. I suoi anni di studio, le molteplici esperienze, la conoscenza di altre lingue, sono state archiviate nel capiente database. Alla fatidica domanda sullo stato civile, si è stupita dell’ampia scelta e ha sussurrato un “convivente” poco convinto. Il processo mentale è stato lineare: ho trent’anni, disoccupata, convivo, indi per cui penseranno che sono prossima al matrimonio e alla maternità e temeranno di concedermi il lusso di un lavoro.
Ad incoraggiare questi pensieri turbolenti è stata una telefonata ricevuta dalla signora e dai frammenti di risposte secche e infastidite che dava alla persona all’altro capo del telefono da cui Sabrina ha intuito che era un’azienda che richiedeva del personale e “sì, certo…farò del mio meglio per farvi avere un candidato maschio. In caso non ne avessimo disponibili con le caratteristiche richieste, le farò sapere”. Ha sbattuto giù la cornetta e ha continuato imperterrita nel suo incessante ticchettio sui tasti.
Essere madre non significa dover rinunciare alla propria vita, indipendenza e carriera, ma è altrettanto vero che la maternità significa molto di più che mettere al mondo un essere umano. Prendersi cura del proprio figlio nei primi mesi di vita, accudirlo, dargli l’imprinting iniziale e tutto l’amore possibile, è un privilegio sicuramente ma anche un diritto e dovere di madre. Ciò che è successo a Emanuela Valente recentemente è un chiaro esempio di come tale diritto sia ancora solamente relegato alla carta e lontano dall’essere una realtà sociale.
Una donna e madre deve andare costantemente incontro a molti sacrifici per conciliare lavoro e figli e deve comunque rischiare la carriera per stare a casa e prendersi cura del proprio figlio durante i primi mesi di vita. La flessibilità del congedo sarebbe un grande aiuto pratico ma, in molte realtà professionali, non è ancora accettato, sebbene sia tutelato dalla legge. Viene previsto infatti, per la madre lavoratrice dipendente, il diritto (e per l’azienda l’obbligo) di astenersi dal lavoro nei due mesi precedenti il parto e nei tre successivi (art. 16, d. lgs. 151/2001), mentre la legge 53/2000 ha consentito alla madre la scelta di posticipare di un mese il congedo per poterne usufruire successivamente alla nascita del figlio.
Ad oggi però potersi dedicare ai propri figli, vederli crescere e contribuire attivamente alla loro educazione, potendo mantenere un lavoro che si concilii con tutto ciò, è ormai un privilegio. I dati evidenziano infatti che sono le donne che lavorano a livelli medio alti, che accorciano la durata del congedo di maternità o che non ne chiedono un’estensione, probabilmente perché possono permettersi di pagare baby sitters, tate e asili nido. È infatti certo che sono proprio i nidi e l’asilo le voci che incidono maggiormente sul bilancio delle famiglie con figli, un peso economico che può diventare un serio problema se sommato alle altre numerose esigenze monetarie e che spesso portano la donna a dover rinunciare al lavoro, nonostante essere indipendenti la soddisfi, per dedicarsi a tempo pieno ai figli e alla casa.
È anche vero però che il diritto alla maternità si sta sempre più complicando perchè troppe donne se ne approfittano, fingendosi in una gravidanza a rischio e anticipando così il periodo di sospensione dal lavoro. Abuso di diritto, si chiama. Emanuela Valente ha affrontato anche questo argomento scrivendo una lettera pubblicata su L’Unità dove ha espresso l’idea che non è poi così facile far passare una finta gravidanza a rischio. Spesso però i sintomi di una gravidanza a rischio non sono sempre chiari e distinti e giustamente, molti medici non vogliono o non possono prendersi la responsabilità di sottovalutarli, sebbene non sempre dimostrabili scientificamente.
Credo che ci sia ancora molto da fare per poter permettere alle donne di usufruire appieno dei propri diritti. Un aiuto sociale, una maggior facilità nella gestione della vita domestica ed educativa dei proprio figli. La legge 53 dell’8 marzo 2000, in favore del congedo di paternità, è stato un primo passo, rafforzando il ruolo del padre e decretandone il diritto di sostituirsi o affiancare la madre sia durante il periodo di astensione obbligatoria, che facoltativa e di usufruire dei riposi giornalieri. La legge è fatta, ora serve però un cambiamento della mentalità, che possa favorire un maggior sviluppo sociale.