“La crisi ha aggravato i problemi strutturali relativi dell’occupazione femminile, in particolare in tema di qualità del lavoro. Sono aumentati i fenomeni di segregazione verticale e orizzontale, si è ampliata l’area degli impieghi non standard, si è acutizzato il sottoutilizzo del capitale umano, e sono cresciuti i problemi di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.” (pag 148 del Rapporto Annuale Istat 2010) Ben il 23% delle donne svolge mansioni lavorative sottoqualificate rispetto al proprio titolo di studio. Indipendentemente dall’età il capitale umano delle donne è sottoutilizzato rispetto a quello degli uomini.
La retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti è inferiore del 20% a quella degli uomini: 1.096 euro contro 1.377 euro (dato influenzato dalla forte diffusione del part time femminile); tra i lavoratori a tempo pieno il divario è più netto tra laureate (1.532) e laureati (1.929). Senza dimenticare che il differenziale salariale aumenta con l’età (le donne hanno carriere più discontinue, dovute alla nascita dei figli e alla maternità) e che beneficiano meno degli uomini di bonus in busta paga (incentivi, straordinari).
Il lavoro temporaneo femminile è il 14,3% del totale, gli uomini sono meno del 10%. Più elevata anche la probabilità di svolgere un lavoro atipico nella fase iniziale della carriera (28% per le 25-29enni e 18% per le 30-34enni); poiché parliamo della fasce di età “fertili”, possiamo ben immaginare come la nascita di un figlio spesso possa comportare il non rinnovo del contratto e la stabilizzazione lavorativa.
Usciamo male anche dal confronto con l’Unione europea: la crisi ha acuito il divario che il nostro Paese ha sempre avuto rispetto al resto d’Europa. Il tasso di occupazione femminile è del 46,1% (-12 punti rispetto alla media europea). Il tasso di inattività dal 2005 è peggiorato: il gap è passato da 12 punti a 13,4 punti percentuale. Permangono differenze dovute al livello di istruzione: il tasso di occupazione delle laureate è di oltre il 70%, quello delle donne con bassi titoli di studio al di sotto del 30%, sebbene entrambi rimangano ancora lontani dal dato europeo (rispettivamente 79% e 37%). Le donne italiane con figli sono ancora più svantaggiate e presentano gap maggiori rispetto alle donne europee, specialmente dal terzo figlio in poi e se hanno bambini fra 6-12 anni (15 punti di differenza).
Le fasce centrali di occupazione femminile (25-54 anni) usufruiscono del part time in maniera simile al resto d’Europa se non hanno figli (una su 5), ma assai meno se hanno 3 o più figli (38% contro 46%); tuttavia aumenta il part time involontario: 43% in Italia, 22% in Europa. La conclusione? In Italia la flessibilità oraria è più un’esigenza delle imprese, mentre in Europa è uno strumento di conciliazione dei tempi vita-lavoro.
Il modello di partecipazione femminile al lavoro è cambiato radicalmente: le donne entrano sul mercato del lavoro in età più avanzata (più o meno quando le generazioni precedenti ne uscivano), hanno aspettative maggiori (dovute anche a livelli più elevati di istruzione) e non hanno intenzione di uscirne prematuramente; sebbene i percorsi lavorativi appaiano frammentati (22% delle donne ha interrotto il lavoro per motivi familiari, compresi matrimonio e gravidanza, solo il 3% degli uomini ha dovuto farlo), specialmente tra le donne con bassi livelli di istruzione (40%, solo 17% tra le laureate) e al Nord (35% contro 22% del Sud).
Per fortuna oggi il fattore matrimonio non comporta più un’interruzione del percorso lavorativo, mentre ha ancora un peso la nascita di un figlio (14% delle donne abbandona il mercato a seguito di tale evento). Anche in questo caso abitare al Nord ed essere poco istruite sono fattori che influenzano negativamente i percorsi di vita.
Le donne spesso sono obbligate a interrompere il lavoro alla nascita di un figlio: nel 2009 ben 800.000 madri (Mulsticopo Istat, Uso del tempo) hanno dichiarato di essersi dimesse o essere state licenziate a causa di una gravidanza: parliamo quasi di una madre su 10.
Può sembrare paradossale, ma le più svantaggiate in questa classifica sono le donne giovani (nate dopo il 1973); altri fattori di rischio sono la residenza al Sud, la bassa istruzione, essere occupate come operaie (e con partner operaio e poco istruito). Tra le donne che abbandonano il 40% riesce a rientrare sul mercato, ma ancora una volta è più difficile per chi abita al Sud (23%).