All Good Things è un coraggioso pugno nello stomaco. Film che molti davano per disperso sin dall’inizio (girato nel 2008, è stato palleggiato da un distributore all’altro per due anni, prima di uscire in poche sale negli Stati Uniti all’inizio di questo mese) può essere visto quasi esclusivamente su Internet come Video on Demand. Arriverà mai in Italia? Non è ancora dato saperlo. Ma sarà difficile, se si parte dal presupposto che il film riguarda un
vecchio caso irrisolto di omicidi seriali, molto noto oltre oceano, ma totalmente sconosciuto qui in Italia.
Se lo guardiamo distrattamente, farà questa fine. Ma ad una seconda e più approfondita visione scopriamo il suo vero significato. Molto più ambizioso e soprattutto più universale.
Lungi dal volersi sostituire ai detective o di girare un episodio di “Cold Cases”, il regista
Andrew Jarecki (nomination all’Oscar per “Capturing the Friedmans”) ha voluto rappresentare ben altro. Ha investito tutto sull’interazione di tre straordinari protagonisti, un carismatico (ma nel male)
Ryan Gosling, un’appassionata
Kirsten Dunst e un glaciale
Frank Langella, vero oscuro motore di tutta la storia.
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Andrew Jarecki parte da un
caso vero, anche se cambia leggermente i nomi dei suoi protagonisti. Il
rampollo di una ricchissima famiglia di immobiliaristi sposa una vivacissima studentessa per andare a vivere una nuova esistenza a contatto con la natura. Ma il padre lo riconduce ben presto “alla ragione”. Finché il rampollo (già traumatizzato dal suicidio di sua madre),
la sua ragione la perde del tutto. A spese della moglie. Prima costretta ad abortire, poi a subire la tirannia di un marito che non vuole che completi gli studi, infine le botte e le minacce. La relazione diventa una
storia di tentativi falliti di fughe e ribellioni della donna, finite sempre con un mesto rientro “all’ovile”. Che ormai non è più un rifugio sicuro, ma un luogo di tortura. Il “giallo” inizia quasi alla fine del film:
la moglie-vittima scompare, sul marito si accumulano sospetti. Non solo per la sparizione della donna, ma anche per
altri due omicidi.

Ma il mistero non è l'elemento centrale della storia. Questo non è un thriller, non aspettatevi tensione o colpi di scena, tantomeno azione. Questo è
un film dolente, buio(anche nelle scene) che vuol rappresentare una sola cosa: la
lenta trasformazione di una famiglia in un lager. Dal quale la vittima non riesce a fuggire, non tanto perché non ne abbia la possibilità, ma perché
continua ad amare il carnefice, nonostante le sevizie continue, psicologiche e fisiche. Come in un campo di concentramento, il kapò-torturatore è a sua volta vittima: il
marito-carnefice è un prodotto della violenza psicologica infertagli dal padre.
Tutto il resto (potere, ricchezza, suspance) è sfondo. In primo piano c’è solo la dinamica di
oppressione familiare. E un obiettivo che si sfiora sempre, ma non si raggiunge mai:
l’indipendenza della donna.